Jonnie Bayfiled, attore, scrittore e commediografo inglese ha scelto la Smile Hair Clinic per il suo trapianto capelli, raccontando la sua esperienza in un articolo pubblicato sul giornale The Time. Ne riportiamo qui una traduzione, invitandovi a dare un’occhiata anche al suo risultato a sei mesi post intervento nel prossimo post Facebook/Instagram.

“Solo quando sono tornato nella camera d’albergo a Istanbul, ho realizzato quello che avevo appena fatto. La mia ragazza mi guardò dal letto come se la chiave magnetica dell’hotel fosse stata consegnata a un mostro. Tutta la mia testa era insanguinata e bendata; una linea di liquido rosso gocciolava giù dalla mia spina dorsale; la mia fronte era insensibile e gonfia. I capelli appena trapiantati spuntavano dal mio cuoio capelluto come rametti bruciati, come una trincea in un campo di battaglia. Quella notte ho dormito seduto, con la testa che mi batteva forte. Guardandomi allo specchio del bagno – presumibilmente con lo stesso sguardo di orrore di tanti precedenti uomini virili e senza capelli – ho finalmente capito che quello era stato necessario per recuperare ciò che avevo perso.

Se Sansone, il biblico uomo forte, smarrì la sua forza quando perse i capelli, oggi potrebbe smettere di lamentarsi. Avevo 21 anni quando ho iniziato a perdere la mia chioma, e con essa andava via non solo la mia scarsa forza, ma anche la mia fiducia, la libido, il carisma, il coraggio, la carriera, gli appuntamenti di sesso, la eggerezza, l’ottimismo.

A quei tempi, nel 2013, ero un buon partito. Non solo avevo una mascella che poteva tagliare il pane, ma anche una chioma che poteva pulire i pavimenti meglio di quelli del primo ministro. Ero un attore e un commediante, lavoravo regolarmente e avevo un futuro luminoso davanti. Avevo tante prospettive, poi ci fu un momento in cui mi sono guardato allo specchio e ho visto che la mia folta chioma si stava prontamente deteriorando davanti ai miei occhi. I ruoli televisivi si prosciugarono allo stesso modo in cui la mia persona sul palcoscenico veniva deragliata dall’autocoscienza paralizzante.

Mentre il mio viso si appassiva e si assotigliava, il resto del mio corpo vacillava a causa della depressione e del tipico schema di auto-distruzione che fa fumare i giovani a raffica e mangiano intere Viennette al buio. Ben presto lo shampoo divenne una minaccia esistenziale. Sono diventato un patetico Macbeth, con le mani insapona tese, che contavano ogni capello traditore intrappolato nella schiuma. Stavo perdendo la testa? Sembrava proprio così.

La disperazione finisce sempre in una fede cieca, così arrivarono le cure miracolose: creme steroidee troppo costose, Minoxidil e Finasteride, le brutte sorelle della calvizie. Terminate le cure, passai a un cosmetico simile a un contenitore di pepe, contenente polvere pigmentata color capelli che avrei scosso sulla mia chioma come se fossi una specie di torta di carote. Poi arrivarono le vitamine della nuova era e cucchiai di radice di cespuglio africano in polvere, con risciacqui di succo di lime indiano nell’olio di ricino. Ero un uomo disperato e alla deriva.

Alla fine mi sono ritrovato in una clinica per trapianti di capelli a Londra. Ho incontrato un “consulente” che vendeva trapianti come auto usate, ma aveva il listino prezzi di un direttore funebre. Mi ha citato € 7500 per un intervento “locale”, e così semplicemente per far incazzare lui e il suo grande brillante orologio da polso, ho prenotato un pacchetto all-inclusive di € 1800 presso la Smile Hair Clinic di Istanbul.

L’industria turca dei trapianti vale già quasi 800 milioni di euro all’anno. Negli ultimi cinque anni è esplosa, offrendo oltre 1.500 operazioni al mese, prevalentemente per uomini europei. Il sistema funziona come una macchina ben oliata. All’aeroporto, mentre i muezzin sono chiamati alla preghiera, sono stato caricato in un minivan insieme ad altri ragazzi in gara per nuovi follicoli. Come se le cose non potessero essere più disorientanti, i ragazzi seduti di fronte a me erano una coppia di maghi spagnoli di mezza età. Non sembravano essere divorati dall’umiliazione e dalla vergogna sociale come il resto di noi “giovani”. Difatti consideravano l’intera faccenda come un weekend da favola. “Non vedo l’ora di usare di nuovo un asciugacapelli!” disse sorridendo uno di loro, tra trucchi di coppa e palla, prima che arrivassimo a un complesso sorprendentemente moderno simile ad un ospedale.

Pensavo avessimo preso una strada sbagliata: per i miei miseri soldi, mi aspettavo di essere accolto tra le braccia di un barbiere chirurgo macchiato di sangue, con un barattolo di crine in una mano e un tubo di colla per legno nell’altra. Invece siamo stati introdotti in una sala d’attesa dall’aspetto professionale, ci è stato offerto un caffè schiumato e siamo stati invitati a sederci su sedie che appartenevano più o meno al Tate Modern.

Il Dottore responsabile ci ha fatto un’accurata introduzione, spiegando ciascuna fase dell’operazione, che poteva durare in totale da sei a otto ore a seconda del caso. Ciò che ha attirato la mia attenzione, tuttavia, era una frase nella brochure consegnata: “Non siamo dei maghi, quindi non creiamo nuovi capelli.” lessi. “Un trapianto può solo offrire solo l’illusione della densità.”

Assicuratomi un titolo per un futuro romanzo, sono stato condotto in una sala operatoria privata, dove il dottore e ben otto assistenti – uno di loro sfoggiava un nuovo look con freschi capelli trapiantati – mi hanno esaminato. Una volta discussa e decisa minuziosamente la mia nuova attaccatura, il dottore ha disegnato l’area con una penna viola, poi sono stato rasato come un detenuto.

Ho visto i ciuffi dei miei capelli rimanenti cadere uno a uno. Un mezzo decennio di panico, paura e odio per sè stessi precipitavano sul pavimento e venivano spazzato via dalla mia vista. Mi sono sistemato sul lettino chirurgico e nel giro di un’ora mi sono state fatte centinaia di micro-incisioni sul cuoio capelluto, non prima di aver passato la parte più dolorosa dell’intera procedura: le iniezioni di anestetico… ad ogni ago arrivava un nuovo inferno. Era come qualcosa visto nel film Arancia Meccanica. Alla seconda sessione di anestesia, avrei prontamente confessato i crimini che non avevo commesso.

Essenzialmente il trapianto comporta prelevare i capelli dalla parte posteriore della testa e impiantarli nella parte anteriore – roba da classe artistica della scuola elementare, pensai. Capii di aver sbagliato valutazione quando vidi gli assistenti chirurgici impiantare a mano ogni follicolo pilifero estratto con le precedenti micro-ablazioni, uno ad uno. È un lavoro artigianale, i tecnici lavorano come insetti, spruzzando spesso acqua salina sulla testa insanguinata come se innaffiassero un’orchidea tropicale.

Ciò che ho considerato principalmente, mentre cercavo di rimanere immobile e ignorare le loro mani indaffarate sopra di me, era quanto fosse drastica quella procedura. I miei fallimenti, l’insicurezza e la mancanza di resilienza nei confronti di una società ossessionata con l’apparenza fisica mi aveva portato a sopportare quella pseudo-tortura, quell’atto di automutilazione dall’altra parte del continente.

A casa, due mesi dopo, i nuovi capelli iniziavano a mettere radici, anche se sembravo ancora una volpe malrdiotta di una zona nucleare di interdizione rispetto qualcuno al largo di Love Island. Naturalmente, il pregiudizio degli altri e la conseguente vergogna fanno ancora parte del processo. Non ho parlato a nessuno dell’intervento, quindi considerate questo articolo un mio “coming out”. Tuttavia quando ho visto i miei genitori per la prima volta dopo circa un mese, se ne sono accorti a malapena. Mio padre pensava solo che avessi fatto un drastico taglio di capelli.

Ci vogliono sei mesi prima che tu possa valutare i risultati e due anni prima che sia un affare fatto. Dovrei consigliare un trapianto di capelli? Chiedetemelo tra due anni. Nel frattempo sappiate che non capita spesso avere la possibilità di prendere il controllo di ciò che minaccia di rovinarci. Per me è stato soddisfacente prendere una posizione, invece di sbattere nella brezza come una bandiera bianca di autocommiserazione e di odio. Mi dovevo un po’ di gentilezza.

Tuttavia la vera vergogna è che tali momenti di auto-scoperta sembrano limitati alla relazione che abbiamo con il nostro aspetto fisico, non al disordine urgente che si nasconde proprio sotto la pelle.